Una NON Direzione...
Una riunione di alcolisti anonimi. Una velenosa riunione di una famiglia. O, forse solo una riunione di parrocchia. Esitanti, attenti, spesso a occhi bassi o con voce rotta. Hanno sfilato uno dopo l'altro senza mai alzare troppo i toni. Divisi da varie opinioni, ma avvinti l'uno all'altro da un identico sentimento: la paura.
Paura di scuotere troppo gli equilibri, di dire "ma" senza dire cosi' tanto da rompere davvero con qualcuno dei presenti. Come un gruppo di parrocchiani, appunto, che denunciano i peccati, ma esitano a nominare i peccatori.
Insomma, un'enorme delusione.
Ancora una volta il Pd ha fatto la solita parte in commedia in cui da anni colloca se stesso: ha fatto salire la tensione in tutto il paese a mille in attesa di questa riunione, per produrre poi, come sempre negli ultimi anni, una mediocre discussione in cui non è circolata nessuna verità. Non quella della scissione, né quella delle dimissioni del segretario. Intendiamoci, qui non ci stiamo lamentando del fatto che non sia scorso il sangue. Ma tra il sangue e il gioco dei rimbalzi generici c'è, come si diceva, la verità, o almeno, una piccola parte di essa. E di questa non abbiamo ascoltato nemmeno l'eco.
Nessuno ha nominato le ragioni del malessere, della distanza. Incredibile che nessuno abbia detto qualcuna di quelle tante dure parole che pure volano nelle interviste, e nei dibattiti, e sui social: "irresponsabile", "sabotatore", "opportunista". Nemmeno il tanto appassionante (per tutti loro) tema dell'uomo solo al comando è stato evocato.
Un'evasività che può essere spiegata solo in parte con la paura, per quanto importantissima, di rompere il mitologico partito. Molto di più sembra pesare un oscuro senso di inadeguatezza al passaggio in corso. Su una cosa sono d'accordo infatti, in tutti gli interventi, anche i più reticenti fra i dirigenti del Pd: confessano, in tante parole, di non sentirsi più al centro della vicenda nazionale e soprattutto di non avere più una bussola.
L'unica cosa che rimane nelle mani di tutti loro è un governo, o forse un simulacro di governo, che è l'ultima fiammella di quattro anni di avvicendamenti a Palazzo Chigi. Quattro anni in cui ogni leader è uscito sempre più debole del precedente - da Pier Luigi Bersani che quella soglia mai ha attraversato, a Enrico Letta il cui percorso si è interrotto come un incidente, fino a Matteo Renzi che ancora non sembra credere che qualcosa sia andato storto, e infine a Paolo Gentiloni che siede lì vicino a Renzi quieto come sempre. Premier per default, ma pur sempre premier, con nelle mani la residua speranza di questo Pd, agitato e sconfitto, di poter nei prossimi mesi consolidare di nuovo la rotta.
Il vero tema della Direzione Pd - come poi si scoprirà in fondo, in un'avvelenatissima coda che ha a che fare con quelle sterili parole che costituiscono i documenti da votare - è proprio questo: l'eutanasia o meno dell'ultimo governo espresso dal Pd. In una coazione a ripetere dal primo governo ulivista, dove si avvicendarono dal 1996 al 2001 tre premier e un quarto candidato, ma sconfitto da Berlusconi.
È una sindrome questa dell'omicidio-suicidio che non è affatto banale. Dalla fusione delle due culture diverse da cui nasce nella Seconda Repubblica l'attuale sinistra, il governo come forma della politica in sé è stato, ed è ancora, davvero il punto più alto dello scontro. Un Prometeo poderoso per un Pci a lungo escluso dal vertice del paese, pragmatica formazione invece nelle mani della Dc, è dal 1996, cioè dalla prima entrata a Palazzo Chigi, che la riformulazione della sinistra della sua visione del governo entra in scontro con la sua stessa realtà: esperienza vissuta in maniera oscillante come costrittiva per la sua tecnicità, o miracolosa nella sua aspirazione a formare una nuova realtà.
Tra mito e ribellione, la questione governo è piantata al centro di ogni riflessione o azione della sinistra della Seconda Repubblica. E all'alba della Terza, la dinamica si è fatta ancora più chiara.
Renzi pensa, andreottianamente, che il governo sia la sola ragione per stare in politica - e al suo premierato ha dedicato e sacrificato tutto. Il partito in questa visione è solo una macchina elettorale. Una visione coerente dal suo punto di vista, che vede in ogni accordo interno, in ogni attività partitica non direttamente interessata a costruire consenso intorno al premier un'inutile se non dannosa distrazione. È seguito in questo da una sostanziosa parte del partito attuale, come si è visto nel voto della Direzione e come sicuramente si vedrà nelle primarie.
Nella sinistra che nasce invece dalla costola comunista - che è la maggioranza di chi sfida Renzi oggi - il governo è invece il vertice di quella piramide sociale che vede il partito come costruttore. Il governo è in questa esperienza la metamorfosi finale di un ordinato processo di organizzazione delle dialettiche sociali. Per questo non è mai fatto da un uomo solo al comando, ed è sempre permeabile alle crisi, alle scosse - che sono il riaggiustamento della realtà.
Il mai amalgamato mix di queste tendenze ha divorato nel corso della Seconda Repubblica la pur poderosa forza del centrosinistra. Oggi di questo scontro rimangono solo i simulacri. Il Pd attuale è un partito finito nelle forme prese nel corso del ventennio scorso. Meglio di tutti lo sanno coloro che lo abitano, lo agiscono e lo guidano. Una verità che capiamo non possa essere detta.
L. Annunziata