La riforma elettorale...
Nel gennaio 2014, prima di assumere la carica del Governo, Renzi aveva negoziato con Berlusconi sostenendo che un nuovo sistema elettorale avrebbe dovuto trovare consenso nell’opposizione.
Il Cavaliere ruppe il patto lo scorso Febbraio, con il pretesto di un conflitto sull’elezione del Presidente della Repubblica. Di fatto, lasciò cadere la riforma dopo aver perso il controllo del proprio partito, Forza Italia (FI), che attualmente i sondaggi sulle intenzioni di voto collocano intorno al 12%. Forza Italia, un partito strettamente personale, è oggi frantumato. Il centro-destra italiano sta iniziando la propria ricostruzione.
Nel frattempo, Berlusconi ha dato priorità alla ristrutturazione del proprio impero: vuole vendere il Milan e le sue televisioni. I suoi pensieri sono sempre più lontani dalla politica.
Dopo la vittoria alle europee del 2014, Renzi ha fatto delle riforme istituzionali la sua priorità. La prima consiste nella fine del “bipolarismo perfetto”, in cui senatori e deputati hanno le stesse prerogative e danno la fiducia ai Governi.
Il futuro sistema elettorale mira a creare maggioranze più stabili. Basandosi sul sistema proporzionale spagnolo, verrà introdotto un “premio di maggioranza”: un bonus del 15% per la lista (partito o coalizione) vincente che supererà il 40%. Se questa percentuale non dovesse essere raggiunta, le due liste più votate andranno al ballottaggio: il vincitore guadagnerà una maggioranza pari al 53% dei seggi (327 su 617).
Sorgono due critiche. Il nuovo sistema tenderebbe a produrre un “presidenzialismo del primo ministro”, oltre che a consentire ad una minoranza di dominare in Parlamento.
Il principale attore del disegno di legge, il costituzionalista Robert D’Alimonti, rifiuta queste critiche: il nuovo sistema non sarà “presidenziale”, poiché il Parlamento potrà continuare a sfiduciare il Capo del Governo, inoltre il Presidente della Repubblica manterrà le sue attuali prerogative.
La minoranza del PD, soprattutto i vecchi dirigenti, teme che la riforma elettorale rafforzi il potere di Renzi.
“Con questi dirigenti non vinceremo mai”, sosteneva il regista Nanni Moretti in una grande manifestazione nel 2002. E’ una delle condizioni che avrebbero favorito, dieci anni dopo, l’ascesa di Renzi. Nel 2013 la politologa Elisabetta Gualmini, presunta simpatizzante del PD, aveva scritto: “E’ un partito che ha rinunciato ad elaborare un programma per vincere le elezioni, preferendo difendere l’identità interna e i gruppi dirigenti, vecchi e nuovi, che gli sono fedeli”.
“Gli oppositori di Renzi hanno gli occhi rivolti al passato”, sostiene il politologo Luca Ricolfi. “Possono anche avere ragione, ma il punto chiave è che il mondo è cambiato e di molto. Se Renzi appare invincibile non è per la sua arroganza, vanità o difficoltà di ascolto, ma semplicemente perché l’opposizione è prigioniera del ventesimo secolo e incapace di comprendere che siamo nel ventunesimo.”
Alcuni definiscono il PD come PdR – “Partito di Renzi”. Il punto debole del leader è la solitudine – l’inesistenza di una opposizione forte. Non è minacciato dalla minoranza del PD né dalla destra. Il nemico che realmente egli teme è la crisi economica.